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Siamo entrambi -
io ed il mio
amico d’ufficio
- dei « patiti »
di Portovenere
e, per giunta,
dei « sub »
inveterati. Il
mare del
pittorico
sorgitore ci
piace,
soprattutto, nel
giorni feriali,
quando le sue
acque
cristalline sono
meno sconvolte
dai numerosi
galleggianti a
motore, i veloci
motoscafi di
lusso, in
particolare, che
rastrellano la
baia ad andature
da campionato,
in barba alle «
grida » delle
autorità
marittime... Ci
piace, allora,
immergerci nel
fresco mattino,
dalla lingua
della Secca,
all’isola
Palmaria, ed
iniziare, a
velocità di
medusa, la
nostra consueta
scorribanda
lungo i diafani
anfratti delle
scogliere e
girare la punta
a sperone
dell’isola,
spingendoci,
quando il mare e
l’autorespiratore
ce lo
permettono, fino
ai magici
strapiombi della
Grotta Azzurra,
prima che vi
arrivi la ressa
dei turisti, con
le rumorose
barche a motore
dei ciceroni
paesani. Poi la
beata siesta
pomeridiana
all’aria aperta,
prima di
riprendere la
via della città.
Siamo usi a farla nel recesso ombroso di un
uliveto
centenario mezzo
abbandonato,
nella fresca
valletta di San
Giovanni, già
Villa
Pieri-Nerli, ai
margini di un
invadente bosco
di pini che ci
manda ondate di
profumi resinosi
e di tante «
erbe buone », ma
che,
incorreggibili
fumatori,
teniamo a
rispettosa
distanza.
Sappiamo infatti
che, in tempo di
solleone,
bivaccare o
dormire sugli
aghi secchi e
sull’intrico di
arbusti di un
sottobosco è
come
abbandonarsi a
Morfeo sul tetto
di una
polveriera...
Quel giorno di luglio eravamo rientrati
all’agreste base
stanchi più del
consueto: il
tempo accennava
a cambiare ed
una forte
corrente aveva
reso molesta la
nostra
escursione
subacquea e, di
più, la preda
insignificante.
A Portovenere il
pesce si è fatto
eremita. Dal
rumore fugge! Il
vecchio ulivo
centenario, dal
gran tronco
scavato alla
base e le radici
nodose ben
aggrappate al
terreno, non più
dissodato da
anni, e gli
altri, più
smilzi, che gli
facevano corona
non ci avevano
risparmiato la
loro ombra
benefica.
Avevamo fatto
onore alla
colazione « al
sacco » e, più
ancora,
all’autentico
Manaròla delle
nostre borracce,
rifornito ad una
delle trattorie
della spiaggia
di Portovenere.
Ben presto era
giunto il sonno,
conciliato dal
canto
strascicato
delle cicale, ed
eravamo entrati
nei regni
fantastici
dell’irreale e
del
subcosciente...
E l’ulivo centenario aveva cominciato a
parlare.
Raccontava al
gruppo degli
ulivi
striminziti che
gli stavano
intorno quanto
aveva visto
nella sua lunga
esistenza e
quanto gli
risultava dalla
tradizione
tramandata dagli
avi. Erano state
le navi dei
Focesi e dei
Fenici a far
conoscere il
gustoso e
balsamico olio
d’oliva alle
popolazioni
della regione,
insieme ai primi
arnesi in ferro
prodotti dai
Sumeri per
lavorare la
terra. Poi altre
navi, quelle dei
Romani, avevano
portato dalla
Grecia i primi
virgulti della
preziosa pianta.
La coltivazione
degli ulivi
s’era
rapidamente
estesa, da
Palmaria a
Ventimiglia ma
la formazione
degli uliveti,
dei quali
rimangono i
gloriosi avanzi,
era stato lavoro
arduo e di
secoli. Nel
Medio Evo la
Repubblica di
Genova,
nonostante le
continue guerre
e la cura
particolare
rivolta alla
navigazione ed
ai commerci,
aveva favorito
in ogni modo
l’estendersi
degli uliveti e
dei vigneti
nelle due
Riviere. L’isola
Palmaria era un
modello del
genere: in alto
la boscaglia,
sui pendii
foranei i
vigneti, sul
versante della
baia il gran
manto
grigioverde
degli ulivi.
L’isola era popolata di casolari e non vi
mancavano le
sorgenti di
fresca acqua
potabile. San
Giovanni dava il
nome ad un
piccolo
aggruppamento di
case, a ridosso
della chiesetta
omonima, sulla
riva del mare.
Più volte i
Pisani, durante
le guerre
fratricide,
l’avevano
assalito,
facendo scempio
delle
coltivazioni.
Con tutto ciò,
l’epoca d’oro
per l’isola
s’era protratta
fino alla prima
metà del secolo
XIX. Poi — aveva
affermato
amaramente
l’albero
venerando
— un più ferreo
volger di cose,
di cui la grande
famiglia degli
ulivi non sapeva
rendersi
ragione,
sembrava aver
cambiato
totalmente la
mentalità degli
uomini. Grandi
lacerazioni
erano state
prodottole con
mezzi inusitati,
sui fianchi
dell’enorme
cetaceo di
roccia posto a
guardia del
Golfo e i dossi
verdeggianti
dell’isola
s’erano
ricoperti di
diabolici
apportatori di
morte e di
distruzione.
Seguì il
racconto di
avvenimenti
tristi ed a noi
troppo noti, per
concludere che
tutto era andato
a catafascio,
che le colossali
opere difensive
ed offensive
erano ora un
mucchio di
rovine e che
tali erano in
parte, o
minacciavano di
divenire, le
millenarie
coltivazioni
dell’isola: i
terreni non più
dissodati e
concimati
(magari con
l’alga delle
spiagge
utilizzata dai
vecchi coloni),
i muretti a
macerie di
sostegno in via
di disfacimento
e, temibile
soprattutto, la
marcia invadente
del bosco, che
stringe gli
uliveti nella
sua morsa
profumata ed
inesorabile, per
soffocarli e
soppiantarli, ed
essere preda a
sua volta del
fuoco
distruttore...
che ormai ha
messo stanza
nella Grande
Dimenticata del
Golfo!
Così l’ulivo centenario nella sua parola
pacata e
dolorante, che i
fumi del «Cinque
Terre » avevano
impresso nel
registratore
della mia
fantasia.
Svegliandomi non
sentii altro
suono che la
nenia cadenzata
delle cicale,
clamante sulle
ali del
maestrale, come
già il racconto
dell’ulivo
venerando... A
quando un
Comitato Pro
Insulae
Palmariae,
come quello già
in atto per il
Tino?
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